Pro e contro delle nuove tecnologie nei paesi poveri

Salvati dal biotech?

Per la Monsanto sarà proprio il Sud del mondo ad avere maggiori vantaggi dalle biotecnologie. Ma gli ambientalisti non sono d'accordo. E intanto, nei paesi poveri, si continua a sperimentare.

di Stefania Garini e Silvia Pochettino

"La biotecnologia può sfamare il mondo... che la messe cominci"! Così recita lo slogan dell'attuale campagna commerciale della Monsanto, leader mondiale del mercato biotecnologico. Ma su quali basi si fonda questa rosea previsione? Uno, sul fatto che le nuove tecniche di manipolazione del Dna applicate all'agricoltura permetteranno di triplicare i raccolti nel giro di pochi anni, risolvendo, secondo l'azienda, il problema della fame. Due. La maggior produttività delle piante geneticamente modificate consentirà di "risparmiare" vasti appezzamenti di terreno ("erosi" dalle tecniche di coltivazione tradizionali), soprattutto nelle zone umide, nelle foreste pluviali e in altri ecosistemi, che costituiscono l'habitat di molte specie animali e vegetali. Va aggiunto poi che l'uso ridotto di insetticidi, fertilizzanti ed erbicidi ridurrà drasticamente l'inquinamento, a tutto vantaggio dell'ambiente e della salute umana. Le previsioni sono allettanti. Ma vediamo come stanno davvero le cose.

Piante adattabili

Le piante transgeniche sono ormai coltivate su oltre 13 milioni di ettari nel mondo. Le nuove tecnologie non promettono solo un miglioramento quantitativo, ma prodotti le cui qualità nutritive sono più elevate. Nel 1997, ad esempio, il Giappone e la Svizzera si sono impegnati nella realizzazione di riso transgenico a contenuto di ferro triplicato: un risultato non da poco, se pensiamo che quella da ferro è la carenza alimentare da sali minerali più grave e diffusa nel mondo (ne soffrono oltre un miliardo di persone, soprattutto nei paesi poveri). Inoltre, sono state create piante capaci di sopravvivere al freddo, alla siccità, ai terreni salini... Piante in grado di adattarsi a ogni clima e a ogni latitudine e, persino, che si riproducono in tutte le stagioni. La produttività dei semi manipolati geneticamente, però, non è sempre all'altezza delle aspettative. Un esempio a tutti noto è quello del cotone Bt (in cui è inserito il gene del Bacillus thuringensis, un insetticida naturale, ndr) proprio della Monsanto, per cui era stata prevista una resa del 90-95 per cento, e che invece ha raggiunto appena il 60 per cento.

Democrazia, non cibo

Ma il vero problema non sta lì. Dal '70 a oggi, infatti, la produzione di cibo pro capite è aumentata in modo esponenziale. Oggi, secondo il Programma mondiale sul cibo delle Nazioni Unite, stiamo producendo più di quanto sarebbe necessario per sfamare l'intero pianeta. Malgrado ciò, la fame non è scomparsa, al contrario. Nell'Asia del Sud, negli ultimi anni cibo pro capite e fame sono aumentati insieme del 9 per cento, mentre in Sud America gli affamati sono cresciuti del 19 per cento. Nei paesi poveri i bambini sottopeso sono 150 milioni (quasi uno su tre): di questi, oltre la metà vive in Africa.

E allora? Amartya Sen, premio Nobel per l'economia nel '98, non ha dubbi: "la vera causa della fame risiede nella dipendenza (e non nella carenza) dal cibo. In altri termini, i poveri e gli affamati sono tali perché non hanno i mezzi economici necessari per acquistare il cibo o per coltivarlo da sé". Il cibo è consumato male, i terreni agricoli non sono sfruttati correttamente ( basti pensare che il 78 per cento del mais è dato in pasto ai polli e al bestiame, che naturalmente finiscono nei mercati dei paesi ricchi). "Sarà la democrazia che darà da mangiare al Terzo Mondo" conclude Sen. E non la bioingegneria.

Tecnologie pulite o profitti "sporchi"?

Dal ricorso alle biotecnologie genetiche potrebbero però derivare altri vantaggi. Gianni Fontana, rappresentante della Monsanto alla fiera-convegno del 25 maggio sulle biotecnologie, tenutasi tra mille polemiche, sostiene che "l'uso di piante modificate per essere più resistenti a insetti e parassiti permetterebbe di ridurre l'impiego di insetticidi, concimi chimici e pesticidi - a tutto vantaggio dell'ambiente, ma anche dei contadini del Sud, che oggi sono costretti ad acquistare i pesticidi dai paesi sviluppati". A questa dipendenza economica si aggiunge il fatto che spesso nei paesi poveri "mancano le strutture logistiche e l'istruzione necessaria per utilizzare questi mezzi adeguatamente, e chi li usa rischia di avere problemi di salute". Le biotecnologie presentano, per così dire, una "tecnologia impacchettata nel seme", e producono perciò benefici immediati senza modificare le pratiche di coltivazione locali, con un livello di investimenti molto basso.

Anche qui non mancano però le obiezioni. La prima riguarda la presunta "sensibilità ambientale" del mercato biotecnologico. Proprio la Monsanto, infatti, è responsabile di decine di brevetti di piante ingegnerizzate per essere resistenti all'erbicida Roundup, e questo consente agli agricoltori di non limitarne l'uso, ma anzi di impiegarlo in dosi ancora più massicce senza il rischio di danneggiare i raccolti. E permette alla Monsanto di fare affari d'oro vendendo il "pacchetto" erbicida e il seme adeguato.

Contadini senza semi

D'altro canto anche l'accesso dei paesi poveri alle nuove tecnologie non sembra così a buon mercato. Le industrie biotecnologiche (non solo la Monsanto, ma anche la Novartis, la Dupont, l'Agrevo, ecc.) inizialmente offrono ai contadini semi modificati a prezzi stracciati, a volte addirittura in regalo. Ma l'agricoltore non può utilizzare i frutti del raccolto per la semina successiva, se non pagando i "diritti d'autore" per l'uso dell'informazione geneticamente manipolata. Ogni anno, gli Stati Uniti incassano dal Terzo Mondo oltre 100 mila miliardi di lire grazie al sistema dei brevetti. Senza contare che, per chi contravviene alle regole, le penali previste dalle multinazionali sono salatissime. Secondo Salvatore Merola del Comitato contro la manipolazione genetica degli alimenti, il sistema funziona in modo analogo a quello delle piantagioni di cocaina del Sud America: "ti dicono cosa piantare, per un po' ti danno i soldi e, cosa più importante di tutte, ti garantiscono lo smercio della produzione. All'inizio il contadino ha qualche vantaggio, poi si trova completamente in balìa dei narcotrafficanti". O delle multinazionali. Che, per costringere gli agricoltori a riacquistare ogni anno le loro sementi, hanno addirittura ideato la tecnica detta "Terminator": semi geneticamente programmati per produrre una tossina che rende sterili i frutti, impedendone il reimpiego nella stagione successiva.

L'omologazione è un rischio

C'è poi un altro, grave problema: l'erosione della biodiversità, cioè la scomparsa di numerose varietà vegetali locali, che va a discapito dell'alimentazione soprattutto nei paesi poveri. Per capire la gravità del problema basti pensare che diecimila anni fa l'alimentazione umana si basava su circa 5.000 specie di piante, mentre oggi se ne utilizzano solo 150. In India si conoscevano 30.000 varietà di riso, oggi sono dieci; in Italia, da 150 varietà di mele all'inizio del Novecento si è passati alle tre attuali. La riduzione della biodiversità rende gli ecosistemi più vulnerabili alle malattie. È significativo il caso dell'Irlanda, che nel 1846 fu colpita da una gravissima carestia perché tutte le piante di patata (identiche tra loro dal punto di vista genetico) furono distrutte da un parassita. Se l'erosione della biodiversità è un vecchio problema dell'agricoltura (da sempre i contadini selezionano le varietà più vantaggiose, abbandonando le altre), la diffusione delle piante transgeniche può aggravare la situazione non solo cancellando qualità originarie a buon mercato per i contadini del sud, ma anche creando "mostri" a causa dell'incrocio incontrollato tra piante ingegnerizzate e non (ad esempio è già stata verificata la produzione di miele transgenico da parte di api che vivono vicino a campi sperimentali).

Secondo la Fao, che in un primo momento ha fortemente sostenuto le biotecnologie genetiche, e oggi ne prende le distanze, "i paesi in via di sviluppo temono che sostanze sintetizzate in laboratorio o prodotte tramite piante transgeniche possano eliminare dal mercato esportazioni tradizionali come la vaniglia, il piretro, la gomma naturale e l'olio di cocco" (Dimension of needs, 1998).

Eppure, per i bioingegneri, saranno proprio le loro tecniche a salvare la biodiversità, attraverso le banche dei geni in cui si possono immagazzinare tutte le informazioni genetiche delle varietà vegetali e animali. "Il biotecnologo moderno vede nella biodiversità la biblioteca dalla quale prende le citazioni da inserire nel linguaggio delle piante che oggi coltiviamo", osserva Fontana. Peccato che le banche dei semi siano tutte proprietà privata delle grandi imprese del Nord.

Il potere nel piatto

In questa situazione sembra che i governi del Terzo Mondo abbiano scelto di puntare sulle nuove tecnologie. Basti pensare ai passi avanti che paesi come la Cina, l'India, e persino Cuba stanno facendo nella sperimentazione in campo di piante modificate. "A Cuba c'è una ricerca biotecnologica del tutto autonoma, che sta producendo risultati interessanti, ad esempio sulla banana e sulla canna da zucchero", spiega Fontana. "È la dimostrazione che anche un paese a risorse zero può accedere a queste tecnologie".

Ma, si sa, tra governi e popolazioni dei paesi poveri c'è spesso una distanza abissale. Ha senso domandarsi cosa succederebbe se, di punto in bianco, una multinazionale decidesse di non vendere più le sementi - su cui gode diritti brevettuali - in una data regione del mondo. Quella regione non potrebbe più seminare, rimarrebbe priva di entrate economiche e di cibo. Si assisterebbe a una sorta di embargo, stabilito non dai governi ma dai colossi dell'economia, ai quali spetterebbe decidere chi mangia e a quali condizioni. "Mi chiedo con quale coraggio si possa ancora parlare di libero mercato, quando fra non più di cinque anni a controllare il cento per cento del mercato delle sementi saranno non più di cinque colossi industriali" afferma l'economista statunitense Jeremy Rifkin, presidente della Fondazione sulle Tendenze Economiche, in un'intervista apparsa su L'Intruso Genetico. E continua: "Se non riusciremo nell'impresa di denunciare quello per cui sta lavorando il trust delle industrie sementiere, presto l'umanità non disporrà più del controllo delle proprie necessità primarie, quelle per l'approvvigionamento alimentare".

Se il patrimonio genetico di piante e animali diverrà monopolio di uno sparuto gruppo di multinazionali, i contadini e i consumatori saranno sempre meno gli arbitri del proprio destino. Ma questa è storia vecchia: da sempre il potere è nelle mani di chi controlla il piatto, e può riempirlo o svuotarlo quando e come gli piace.

Il "ventennio" transgenico

1977
La Genentech, una delle prime compagnie di ingegneria genetica, annuncia la produzione di una proteina umana in un batterio: la somatostatina (diventata celebre in Italia come ingrediente della terapia anticancro del professor Luigi Di Bella).

1978
La Genentech produce in laboratorio insulina umana tramite batteri transgenici. È un passo avanti per la terapia del diabete. Distribuito dalla Eli-Lilly, il primo farmaco ricombinante della storia entrerà in commercio nell'81.

1980
La Corte Suprema degli Stati Uniti sancisce la brevettabilità di esseri viventi geneticamente modificati.

1981
All'Università dell'Ohio vengono creati i primi animali transgenici.

1982
La Lindow crea batteri manipolati grazie ai quali fragole e patate resistono alle gelate.
Richard Palmiter, Ralph Brinster e altri studiosi creano un topo gigante contenente un gene di ratto.

1983
Nasce la prima pianta transgenica di tabacco.

1985
Primi test all'aperto su piante transgeniche resistenti a insetti, virus e batteri.

1986
Primo vaccino creato dall'ingegneria genetica per l'epatite B, prodotto dalla Chiron Corporation. Vengono introdotte nell'ambiente le prime piante transgeniche. Creati i primi cromosomi artificiali.

1987
Inventato il gene targeting, metodo che permette di inserire geni in punti precisi del patrimonio ereditario di un organismo.

1988
Brevettati i primi mammiferi, gli oncotopi creati ad Harvard da Philip Leder e Timothy Stewart. La SyStemix brevetta un topo con sistema immunitario umano.

1990
La GenPharm crea una mucca transgenica che produce proteine umane nel latte. La Pfizer produce nei batteri transgenici la chimosina, l'enzima digestivo responsabile del caglio (la trasformazione del latte in formaggio).

1993
Topi transgenici per ogni esigenza di laboratorio: possono produrre immunoglobuline umane, ammalarsi di melanoma, epatite, diabete e altro ancora. Pecore e maiali transgenici producono farmaci nel sangue o nel latte.

1994
Arriva sul mercato americano il primo ortaggio transgenico, il pomodoro Flavr Savr della Calgene. Primi rospi e uccelli transgenici. Maiali chimerici con organi "semiumani".

1995
Due zucchine transgeniche, resistenti al virus, entrano in commercio negli Usa. Batteri transgenici vengono usati per tingere i blue jeans, ma si progetta anche cotone dai fiori blu. Salmoni transgenici, giganti o a crescita alterata. Anticorpi umani nel latte di capra.

1997
È l'anno di Dolly e dei progressi nelle tecniche di clonazione. Seguiranno scimmie, altre pecore e mucche. Alla ribalta il caso delle "rane senza testa" del dottor Schlack.

1998
Il Parlamento europeo sancisce la brevettabilità di microrganismi, piante e animali geneticamente modificati, nonché di singoli geni o parti isolate del corpo umano.

(Tratto da: Yurij Castelfranchi, "X Life. Guida alle piante e agli animali transgenici", Avverbi Edizioni, L.12.000)

I pirati della genetica

L'Europa ha sancito una volta per tutte il diritto di brevettazione su piante e animali modificate geneticamente con una direttiva approvata nel '98 dal Parlamento. In sostanza, la semplice scoperta di un materiale biologico esistente in natura non può essere brevettata; ma quando questo materiale viene isolato dal suo ambiente attraverso un procedimento riproducibile in laboratorio, allora l'invenzione diventa brevettabile.

Il brevetto conferisce un diritto di esclusiva. È come se le multinazionali non vendessero agli agricoltori le sementi, ma gliele cedessero in affitto, costringendoli a ripagare questo "affitto" l'anno successivo, se utilizzeranno ancora quella particolare semente.

C'è poi un altro aspetto inquietante legato ai brevetti; quello per cui il vicedirettore della Fao, Obaidullah Khana, ha coniato il termine "biopirateria". L'80 per cento della biodiversità si trova infatti nei paesi del Sud del mondo, ma a brevettare sono gli istituti di ricerca e le compagnie private dei paesi industrializzati. La brevettazione della biodiversità si trasforma così in una sorta di neocolonialismo, in cui le popolazioni indigene vengono espropriate (spesso a loro insaputa) del loro patrimonio di conoscenze botaniche e zoologiche tradizionali.

I "biopirati" non vanno a caccia solo di animali e piante, ma anche di geni e tessuti umani. Nel 1984, in California, John Moore ha denunciato i medici che lo avevano guarito dalla leucemia perché, a sua insaputa, avevano brevettato alcune cellule prese dalla sua milza. Moore chiedeva di partecipare ai profitti derivanti dal brevetto (del valore di circa 5000 miliardi di lire) ma, secondo quanto stabilito dalla Corte Suprema, una persona cui vengano asportate parti del corpo a scopo terapeutico non ha nessun diritto di proprietà su tali parti, perché l'invenzione è opera dei ricercatori. In alcuni casi, la brevettazione di geni o parti del corpo ha interessato intere popolazioni. Nel '95, ad esempio, il Dipartimento per la salute del governo statunitense ha ottenuto un brevetto su un virus utilizzato contro la leucemia, isolato dal sangue di alcune persone del popolo Hagahai della Nuova Guinea. Anche questa volta, nessuno si è sognato di chiedere il consenso sul brevetto o di proporre una spartizione dei profitti.

 
© Volontari per lo sviluppo - Agosto 2000